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Squolafotografica Posts

Il ragazzo in una fotografia di Eli Weinberg.

Ripreso da Geoff Dyer Aug. 30, 2016 The NYT Magazine

Photograph by Eli Weinberg

“Non c’è niente di così misterioso come un fatto chiaramente descritto.” Il fatto che le versioni di questa osservazione siano state attribuite a due fotografi di strada molto diversi, Garry Winogrand e Lisette Model, ne sottolinea la saggezza e il mistero. Aiuta a spiegare perché i tentativi di mettere in scena fotografie – per creare finzioni – solo raramente funzionano in modo così potente come il tipo di citazioni dalla realtà che otteniamo nelle fotografie documentarie. Larry Sultan una volta disse che “pensava sempre a una bella fotografia come se una creatura entrasse nella mia stanza; è come, come sei arrivato qui? … Più cerchi di controllare il mondo, meno magia ottieni. Winogrand non aveva obiezioni a mettere in scena le cose; era solo che non avrebbe mai potuto inventarsi niente di così interessante come quello che c’era là fuori per le strade. Ma quando inizia la messa in scena? Ho visto per la prima volta questa fotografia di una folla di manifestanti al Museum Africa di Johannesburg, parte dell’enorme mostra fotografica chiamata “Rise and Fall of Apartheid”, nel 2014. L’immagine mostra file di persone di colore, tre o quattro profonde, in piedi educatamente e con dignità. In primo piano, a sinistra dell’inquadratura, c’è un uomo la cui fascia al braccio lo contraddistingue come una specie di maggiordomo, la giacca vecchia e molto consumata che gli cade dalle spalle. Le donne sono davanti, con in mano cartelli con la scritta: “Siamo dalla parte dei nostri leader”. C’è una gamma di età, i manifestanti più giovani sembrano essere nella tarda adolescenza. Quasi tutti ora sarebbero morti o sulla settantina. La foto è stata scattata nel 1956 dopo che 156 membri dell’Alleanza del Congresso furono accusati di tradimento. Successivamente il numero si sarebbe ridotto a 91, poi a 30. Alla fine, nel 1961, furono tutti assolti. Al momento in cui è stata scattata la foto, tutto questo, compresa la prigionia di Nelson Mandela in seguito al processo di Rivonia del 1963-64, doveva ancora arrivare. Che è forse un’altra qualità delle grandi fotografie: il modo in cui questi documenti essenziali del passato sembrano spesso intrisi di futuro. I manifestanti riempiono la cornice in modo che il sentimento sia unanime, la solidarietà assoluta. Al di là della cornice del quadro si trova l’apparato dello stato dell’apartheid, con le sue immense risorse di intimidazione fisica, controllo burocratico e coercizione psicologica: la polizia ei soldati si assicurano che l’opposizione stia al suo posto – e sappia -. Riempire così l’inquadratura con i manifestanti sembrerebbe il limite della scelta estetica compiuta dal fotografo. A parte questo, è strettamente di valore fotogiornalistico. Tranne, ovviamente, c’è una componente cruciale che non ho menzionato. Schiacciato davanti, visibile in uno spazio tra i cartelli, c’è un ragazzo solitario. Immagino abbia circa 13 anni. Il suo braccio destro si allunga e tocca il sinistro, un gesto che a volte le persone fanno quando sono nervose. Indossa pantaloncini, sandali e una camicia fantasia a maniche corte. Sta sorridendo leggermente. Ed è bianco. Guardiamo la fotografia e la domanda sulle nostre labbra ne articola il mistero e la magia. O, per dirla in un altro modo, la fotografia rimane ostinatamente silenziosa di fronte alla domanda che insiste a farci porre: cosa ci fa lì? Come, per tornare alla frase di Sultan, questa creatura è entrata nella stanza? Diverse spiegazioni suggeriscono se stesse: potrebbe essere il figlio di simpatici liberali bianchi. Poteva essere portato con sé da una collaboratrice domestica o da una tata che fosse anche una manifestante, correndo il rischio, sicuramente, di offendere il suo datore di lavoro, a meno che quel datore di lavoro non fosse di impegno non solo liberale ma rivoluzionario. Né la didascalia della mostra – “Folla vicino a Drill Hall il primo giorno del processo per tradimento, Johannesburg, 19 dicembre 1956″ – né il catalogo hanno offerto alcun indizio su come il ragazzo sia finito lì, stipato in prima fila nella storia. Il fotografo, di cui non avevo sentito parlare, era Eli Weinberg. Apparentemente nacque in Lettonia nel 1908 e arrivò a Città del Capo nel 1929, dove si iscrisse al Partito Comunista e divenne attivo nel movimento sindacale. È stato arrestato, detenuto e sottoposto a una serie di ordini di divieto. Morì a Dar es Salaam nel 1981. Una vita, dunque, di ripetuti spostamenti ed esilio, illuminata dalla tanto sognata patria della giustizia. Sperando di saperne di più sul ragazzo nella foto, ho contattato il co-curatore della mostra, Rory Bester. Era, ha detto, “sicuro al 90% che fosse il figlio del fotografo. … [Mark] lo accompagnava spesso mentre lavorava… sia quando era sindacalista sia quando faceva il fotografo.” Un’indagine del 2014 condotta da una testata giornalistica sudafricana, in cui ad amici della famiglia Weinberg e ad altri attivisti è stato chiesto se potevano identificare il ragazzo, ha messo in dubbio questo punto: alcuni erano certi che fosse Mark; alcuni non lo riconobbero. Ho ricontrollato con Bester quest’estate e ha scritto che “non sono emerse ulteriori informazioni sul figlio di E.W., tranne che nessuno ha contraddetto la” convinzione “che sia davvero suo figlio”. Quindi, supponendo che Mark fosse lì con suo padre, perché non metterlo al lavoro e includerlo nella foto? In un certo senso, quindi, si potrebbe dire che Weinberg abbia messo in scena il film, che abbia lavorato alla sua magia. Ma la protesta stessa è stata messa in scena; non è stato un incontro spontaneo. In modo del tutto benigno, la presenza del ragazzo mostra silenziosamente e sottilmente una crepa nell’implacabile armatura dell’apartheid. L’innocente paffuto potrebbe trasformarsi nel narratore di “Waiting for the Barbarians” di J.M. Coetzee, il quale dichiara che “se c’è mai qualcuno in un remoto futuro interessato a sapere come vivevamo, che in questo estremo avamposto dell’Impero di luce ci esisteva un uomo che in cuor suo non era un barbaro”.

Hazel Bryan, left, and Elizabeth Eckford, right, in Little Rock, Ark., in 1957.
Credit…Will Counts/Associated Press

Di tutte le persone nella foto, il ragazzo è quello che, in virtù della sua giovinezza, è più probabile che sia ancora in giro, per rispondere alle domande sollevate dalla sua presenza. Vogliamo sentire la sua versione di quello che è successo. Secondo Bester, diverse persone nelle fotografie della mostra sono passate per identificarsi e per essere rifotografate davanti alle vecchie foto. Questo è stato fatto in altre situazioni, da altre persone fotografate in mezzo a eventi storici. È spesso illuminante, in parte a causa del modo in cui i ricordi delle persone sono contraddetti, rafforzati o addirittura creati dall’esistenza di una fotografia. Si consideri, ad esempio, un’immagine che è in qualche modo l’immagine speculare di questa, scattata meno di un anno dopo, da Will Counts a Little Rock, Ark. Invece di un ragazzo bianco solitario circondato da folle di neri pacifici e accoglienti , c’è una ragazza nera solitaria circondata da una folla urlante di bianchi. La ragazza nera è Elizabeth Eckford, una dei nove studenti afroamericani che avrebbero dovuto entrare insieme alla Little Rock Central High School all’inizio della desegregazione. All’ultimo momento, si ritrovò a camminare da sola, vittima di abusi da parte della folla. Una faccia bianca ringhiante, quella della quindicenne Hazel Bryan, divenne il simbolo dell’intransigente fanatismo razziale. La stessa Bryan, però, non era così intransigente. Alcune persone possono passare la vita all’altezza di un ideale; Bryan è arrivata a sentire che in qualche modo ha passato la sua vita a vivere l’incidente catturato nel film quel giorno. Nel 1963 cercò il numero di Eckford nell’elenco telefonico e telefonò per scusarsi. La conversazione fu breve, Eckford accettò le sue scuse e andò avanti con la sua vita. Nel 1997, in occasione del 40° anniversario della desegregazione della scuola, le donne si sono incontrate di persona e sono state nuovamente fotografate dai Conti, questa volta come simboli di guarigione razziale e solidarietà. Sono diventati amici, hanno parlato in pubblico della necessità di armonia e – l’apoteosi! – sono apparsi insieme su “Oprah”. Solo che questa non era proprio la fine. C’erano risentimenti persistenti, dubbi da parte di Eckford sulle motivazioni di Bryan. Forse stava solo cercando di sentirsi meglio. Così la loro relazione finì come era cominciata, con l’allontanamento. E, in un certo senso, l’immagine originale di Counts rifiuta la possibilità di redenzione. Se contiene una suggestione del futuro, è nel modo in cui il futuro insisterà nel ricordare Eckford e Bryan. Le persone nella foto sono bloccate nell’ambra della storia: una storia che la fotografia ha contribuito a creare. Torniamo a quel giorno di dicembre del 1956 a Johannesburg, ad altre fotografie della stessa scena. Uno di essi, ripreso da un fotografo non identificato da un’angolazione diversa, mostra un musicista che dirige la folla in canti e inni. Sullo sfondo, leggermente sfocato, riconosciamo molti degli stessi volti dell’immagine precedente, comprese le donne ai lati del ragazzo. Frustrante, il braccio alzato del conduttore è esattamente dove sarebbe il viso del ragazzo, ma se guardiamo in basso, non c’è traccia delle sue gambe nude e dei suoi sandali. Il che mi ha fatto realizzare una cosa che non avevo del tutto registrato sulla fotografia precedente: è vestito per un tempo completamente diverso da quasi tutti gli altri. Le persone intorno a lui sono vestite come per una giornata piovosa e fredda e per un lungo soggiorno. Nella seconda foto, sono ancora in piedi accanto ai loro capi, ma lui non si vede da nessuna parte. È scomparso dalla storia.Continuavo a chiedermi come fosse arrivato a considerare questa immagine più tardi nella vita. Presumibilmente è stato motivo di orgoglio e felicità nello stesso modo in cui l’immagine di Little Rock è diventata, per Bryan, fonte di vergogna. Questa era solo una speculazione, resa inutile dalle due cose che ho scoperto su Mark. In primo luogo, sembra che sia morto nel 1965 a 24 anni, quindi suo padre è stato quello rimasto a guardare indietro con amore e orgoglio alla visione di appartenenza a cui aveva assistito e creato. In secondo luogo, a seguito di un incidente d’auto, Mark era sordo da quando era bambino. Quindi c’è isolamento in mezzo alla solidarietà. Questi fatti non cambiano nulla della fotografia, ma ne aumentano il mistero. Un’immagine della storia – un momento nella storia – e del destino, è una prova documentaria dell’inconoscibile.

Tradotto da un testo di Geoff Dyer

Bruno Manunza

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Memorie d’orchidee 1

Oggi vi parlo di un botanico del secolo passato che si dedicò allo studio delle orchidee sarde. Ho ricercato e trovato le sue descrizioni delle specie e dei luoghi in cui crescevano, e in qualche caso ancora oggi crescono, riportandole tra le pagine del mio nuovo libro: Altre Sennoricas.

Le descrizioni di Achille Terracciano, im Altre Sennoricas

Lo studioso di cui parlo si chiamava Achille Terracciano, era nato a Muro Lucano (Potenza) il 5 ottobre 1861. Figlio d’arte, poichè il padre Nicola, esploratore e descrittore della flora dell’Italia meridionale e ‘botanico della Real Casa’, fu direttore del giardino botanico reale all’inglese della Reggia di Caserta per oltre quarant’anniCosì, erede di tanta passione botanica, Achille dopo gli studi liceali a Maddaloni, si iscrisse all’Università di Napoli nella facoltà di medicina. Superato il primo biennio passò alla facoltà di scienze naturali, dove conseguì la laurea nel 1884. Da un incarico all’altro, nel 1906, ottenne per concorso il posto di straordinario di botanica bandito dall’Università di Sassari, assumendo la direzione dell’istituto e dell’orto. Si impegnò, attraverso attività di acquisti, scambi e doni, ma soprattutto ricognizioni territoriali, a incrementare l’erbario sardo. Le ricerche erano finalizzate anche alla preparazione di un’opera onnicomprensiva sulla vegetazione sarda. Di questo progetto furono pubblicati solo alcuni stralci sul Dominio floristico sardo e le sue zone di vegetazione, su alcuni elementi alpini e sulle orchidee isolane.

In Sardegna svolse un approfondito lavoro di recupero e rielaborazione di conoscenze e materiali prodotti dai suoi predecessori, raccogliendone l’eredità e ponendo le basi per una rinnovata tradizione degli studi botanici sassaresi con la nascita del Bullettino dell’Istituto botanico della R. Università di Sassari (1909). Nel 1917 venne chiamato a dirigere l’Istituto botanico di Siena. Tuttavia, prima ancora di raggiungere la nuova sede, venne colpito da una grave malattia. Morì l’8 agosto a Caserta, assistito dalla moglie Maria Manganelli e disponendo il lascito dei suoi erbari personali e di parte dei suoi averi agli istituti botanici di Napoli e Sassari.

Altre Sennoricas, Orchideae di Sardegna è il mio nuovo libro fotografico. Come potete intuire parla di orchidee spontanee, di quelle della Sardegna in particolare. Potete prenotare la vostra copia con lo sconto del 50% sul prezzo di copertina iscrivendovi al gruppo: https://www.facebook.com/groups/altresennoricasL’offerta è limitata ahimè alle prime 100 prenotazioni

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La Fotografia, l’espressionismo astratto, e altre amenità.

Aaron Siskind Peeling Pant, 1950

L’Espressionismo astratto è una corrente artistica che si esprime attraverso il rifiuto della figura nell’arte visiva. Si sviluppa, a partire dal 1946, considerata come un fenomeno esclusivamente americano, per poi diffondersi rapidamente in tutto il mondo. Gli artisti esprimono le loro emozioni (espressionismo…) attraverso dipinti di carattere astratto.

Il termine Espressionismo astratto è utilizzato per la prima volta nel 1946 dal critico Robert Coates, che, in realtà, lo mutua dallo storico dell’arte Alfred Hamilton Barr, il quale lo aveva coniato nel 1919 per commentare un quadro di Vassily Kandinsky.

L’affermazione di questa corrente marca il passaggio della leadership artistica dall’Europa agli Stati Uniti.

Il nuovo movimento si afferma inizialmente a New York con opere di grandi dimensioni caratterizzate da superfici piatte, dall’abolizione della profondità e della prospettiva, dal rifiuto di tutto ciò che è accademia.

Accanto all’espressione pittorica assume importanza fondamentale – per la prima volta nella storia dell’arte – anche il gesto dell’artista che dipinge.

A quelli che si chiedono le ragioni di tanto successo faccio notare che il movimento attrasse l’attenzione, nei primi anni cinquanta, della CIA. Vi videro un mezzo ottimale per la promozione dell’ideale statunitense di libertà di pensiero e di libero mercato, uno strumento perfetto per competere sia con gli stili del socialismo realista prevalente nelle nazioni comuniste, sia con il mercato dell’arte europea, allora dominante. Il libro di Frances Stonor Saunders (La Guerra Fredda Culturale – The CIA and the World of Arts and Letters) spiega nel dettaglio come la CIA organizzò e finanziò la promozione degli artisti americani aderenti all’espressionismo astratto, tramite il Congresso per la libertà culturale dal 1950 al 1967.

Aaron Siskind (1903-1991) è stato un fotografo americano legato al movimento dell’espressionismo astratto, considerato uno dei maestri della fotografia del XX secolo. Può essere considerato tra i pionieri di questo modo espressivo, e accostato a Man Ray o a Moholy Nagy.

Inizia a fotografare quando riceve la sua prima macchina fotografica come regalo di nozze e la usa durante la luna di miele. Immediatamente comprende il potenziale artistico dell’apparecchio fotografico e ne fa la sua professione. Siskind diviene, allora, membro entusiasta del New York Photo League, un’organizzazione di fotografi dilettanti e professionisti specializzata nella documentazione sociale. Con il tempo la Lega Photo diventa l’unica scuola di fotografia non commerciale negli Stati Uniti, con il grande merito di formare una generazione di fotografi, tra cui Margaret Bourke-White e Berenice Abbott.

Siskind ne diventa il direttore e partecipa a progetti volti a documentare la vita dei quartieri durante “la Depressione”. A differenza, tuttavia, di altre serie documentali del periodo, nella serie Siskind’s Dead End: The Bowery e Harlem Document, l’artista americano mostra più preoccupazione per l’armonia del taglio e delle forme che per la documentazione della condizione sociale, concentrandosi sulla forma a scapito del contenuto sociale. Il lavoro di Siskind continua in questa direzione fino all’inizio del 1940, quando lascia la Lega Foto e inizia una relazione di intenti con i membri della Scuola di New York dell’espressionismo astratto.

Dopo la fine del 1930, infatti, le opere di Siskind si concentrano sui dettagli offerti dalla natura e dall’architettura, questi vengono presentati come delle superfici piatte per creare una nuova immagine indipendente dal soggetto originale. 

Nell’estate del 1950 Siskind incontra Harry Callahan quando entrambi insegnano al Black Mountain College. Callahan riesce a persuadere Siskind a raggiungerlo alla facoltà IIT dell’Institute of Design di Chicago (fondata da Lazlo Moholy-Nagy). Nel 1971 segue Callahan alla Rhode Island School of Design. 

Aaron Siskind

Abbandonato il realismo documentario, l’artista americano sfocia in un approccio astratto che nasce dal tentativo di esprimere gli stati d’animo della fotografia attraverso concetti che risultano più semplici della registrazione della materia. Le sue inquadrature, che hanno spesso per soggetto frammenti, diventano composizioni autonome in grado di esaltare la natura bidimensionale del mezzo fotografico.

Roger Catherineau fu un fotografo francese precursore dell’espressionismo astratto. Nato nel 1925 a Tours, in Francia, Roger Catherineau  si avvicinò alla pittura e  al disegno, per poi passare alla fotografia.

Roger Catherineau

Morì prematuramente nel 1962 e il suo lavoro rimase in gran parte sconosciuto fino alla riscoperta da parte dello storico Christian Bouqueret, negli anni novanta. 

Roger Catherineau

Il suo lavoro fu ispirato e dal celebre fotografo e insegnante tedesco Otto Steinert, fondatore del movimento “Fotoform” che si proponeva di far riscoprire le possibilità creative e le forme espressive dell’avanguardia fotografica d’anteguerra, che la politica culturale nazionalsocialista aveva completamente occultato. Steinert lo incluse nella mostra del  1954-55 e nel libro “Subjektive Fotografie 2.

Roger Catherineau

Catherineau e Steinert si concentrarono nello spostare la considerazione dello spettatore dal semplice oggetto, ambiente, paesaggio o persona, verso implicazioni diverse e più profonde

Roger Catherineau

Grazie all’uso del linguaggio astratto, Catherineau incentrò l’attenzione sull’apporto che la visione del mondo dell’autore poteva dare all’immagine creata. Da artigiano della camera oscura,  Catherineau esplorò diverse tecniche di espressione. Attraverso manipolazioni, solarizzazioni, doppie esposizioni, stratificazioni con vernici e inchiostro sul vetro, il fotografo francese riuscì a dare alla fotografia una profondità senza eguali, abbandonando le due dimensioni di rappresentazione.

L’astratto italiano

Uno dei maestri dell’Astrattismo è l’italiano Luigi Veronesi (1908-1998). Pittore e grafico, Veronesi ha praticato il fotogramma e altri tipi di esperimenti con la luce dagli anni Trenta fino agli Ottanta del Novecento. Nel 1956, in anni successivi al momento delle avanguardie storiche quindi, scrive: “Il fotogramma, cioè l’immagine luminosa ottenuta senza la macchina fotografica, è il segreto della fotografia. […] Il fotogramma rientra, nella maggior parte dei casi, in quell’orientamento ‘metafisico’ o ‘astratto’ che ha influenzato e condizionato buona parte di tutta l’arte contemporanea”.

Luigi Veronesi, Sovrimpressione (fotogramma e fotografia), 1937
Luigi Veronesi, Fotogramma, 1979

Paolo Monti (1908-1982) è un sensibile conoscitore dell’Informale e dell’Action Painting, nonché dell’arte classica, quando sviluppa, a partire dagli anni Cinquanta e fino a tutti gli anni Settanta, ricerche sulle forme astratte rinvenibili nelle materie delle rocce, delle acque, dei legni, dei muri; oltre che con la ripresa diretta lavora anche con rotazioni della macchina fotografica, fotogrammi, chimigrammi, sovrimpressioni, studi sulla diffrazione della luce. Nel 1978 scrive: “Alcuni trovano nelle mie fotografie un eccessivo gusto per le forme e altri per l’astratto e forse con qualche loro seria ragione; sta di fatto però che fra le prime cose che conosciamo dalla lontanissima storia dell’uomo troviamo una severa esigenza della forma e in certe epoche della forma astratta. […] sono così un collezionista di foto di muri, di manifesti, come delle vere forme astratte della natura e dico ‘astratte’ per analogia formale (o meglio, informale)”.

Paolo Monti, Senza Titolo, 1954

Paolo Monti, dalla serie Santarcangelo di Romagna, 1972 / stampa 1993

Mario Giacomelli (1925-2000), con le sue ripetute ricerche sul paesaggio agricolo coltivato dall’uomo, sviluppate a partire dagli anni Cinquanta, inventa una sorta di Astrattismo di tono espressionista, comunque riferibile, in un particolare mescolamento, a una sensibilità informale. I solchi della lavorazione dei campi e le forme delle colline diventano forti segni di sapore tipografico: l’elemento reale talvolta sopravvive e talvolta si perde nel crudo bianco e nero, in una lotta con la materia e con la terza dimensione, spesso azzerata.

Mario Giacomelli, dalla serie Presa di coscienza sulla natura, 1982 ca.

Con le neoavanguardie la fotografia prende coscienza dei suoi codici e in un importante processo autoriflessivo indaga se stessa come medium: in questo tipo di indagine spesso il soggetto passa in secondo piano, e dunque anche la rappresentazione (si pensi ad alcune Verifiche di Ugo Mulas (1928-1973) dell’inizio degli anni ’70, nelle quali la quadrettatura dei provini e la scelta di soggetti minimi creano, in fondo, dei piccoli tableau astratti).

Franco Fontana, Paesaggio. Basilicata, 1978

In anni recenti l’interesse da parte dei fotografi, italiani e non, nei riguardi dell’astratto non risponde più a criteri né a poetiche omogenee; Roberto Masotti (1947), in alcuni lavori degli anni Novanta dedicati alla natura, esplicita un sottile, elegante legame con la Land Art e, grazie all’inquadratura stretta sulla superficie della pietra, crea un effetto evocativo proprio in quanto l’immagine vive di una sua strana dimensione astratta; Silvio Wolf (1952), con i suoi Horizons degli anni Duemila, che rimandano un poco alle stesure di Rotchko, riflette sulla materia della pellicola fotografica

Silvio Wolf Horizons

Colori

«Ernst Haas ha fatto del colore loggetto stesso della sua ricerca. Nessun fotografo prima di lui era mai riuscito a esprimere così magistralmente la gioia pura e fisica del vedere», ha detto John Szarkowski, conservatore del Museo di Arte Moderna di New York, che nel 1962 gli dedica la prima mostra personale mai realizzata su un’opera fotografica a colori.

Ernst Haas

Le sue teorie e le tecniche fotografiche che ne scaturiscono, sono in grado di muoversi tra lo spazio e il tempo, incentrandosi sul colore e sul movimento. Considerato il primo a valorizzare il colore e l’effetto mosso, legittimando artisticamente un tipo di ripresa dai contenuti espressivi fortemente emozionali, fino a quel momento sottovalutata, facendone il suo tratto distintivo. Per lui l’immagine non è statica, il movimento la rende viva e gli conferisce la giusta vocazione, fino a farne elemento fondamentale del proprio modo di esprimersi. Il colore e il movimento per lui fungono da liberazione; forte dell’odio per le regole nell’arte, non rinuncia mai alla propria libertà stilistica.

Ernst Haas
Ernst Haas

Harry Callahan
Harry Callahan divenne il capo del Dipartimento di Fotografia del Chicago Institute of Design nel 1949. Ha sperimentato di tutto, dai nudi ai botanici, ma è particolarmente noto per la sua “micro fotografia paesaggistica” in cui mostrava piccoli cespugli di erbacce che crescevano nella neve come foreste isolate.

Harry Callahan, “New York City,” 1974.
Harry Callahan Weed Against Sky, Detroit, 1948

Il fotografo e regista francese americano William Klein è stato un famoso fotografo di moda per la rivista Vogue negli anni ’50. La sua fotografia è considerata rivoluzionaria per il suo “rifiuto senza compromessi delle regole della fotografia allora prevalenti”, come affermato nel manuale di fotografia del Museo Ludwig nel XX secolo.

William Klein, “Atom Bomb Sky, New York,” 1955.

Ola Kolehmainen. Nata nel 1964 è una fotografa finlandese le cui fotografie sono incentrate principalmente sull’architettura moderna. Usa lo spazio, la luce e il colore per rappresentare le strutture in modo più astratto, basandosi sul misticismo che irradiano.

Ola Kolehmainen, “L’Hotel,” 2002.

Alcuni miei lavori degli ultimi anni che si muovono dentro questo binario:

Bruno Manunza Arcipelago Verde, 2011
Bruno Manunza Arcipelago Verde, 2011
Bruno Manunza Arcipelago Verde, 2011
Bruno Manunza Dai mari, 2009
Bruno Manunza Dai mari, 2009
Bruno Manunza Chaos, 2015
Bruno Manunza E non verde, 2015
Bruno Manunza Chaos, 2010
Bruno Manunza Chaos, 2010

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Nell’abisso

Guy Bourdin dalla serie Mise en abyme
pubblicità per il marchio di scarpe Charles Jourdan, primavera 1978

C’è un’espressione usata per indicare uno stragemma narrativo nell’arte: MISE EN ABYME , dal francese “messa in abisso”.

Significa collocazione nell’abisso.

E’ un termine introdotto da André Gide per indicare un espediente narrativo che prevede la ripetizione di una sequenza di eventi o la collocazione di una sequenza esemplare che condensi in sé il significato ultimo della vicenda in cui è collocata e a cui rassomiglia.

Nella pittura e nella fotografia, l’espressione indica una tecnica nella quale un’immagine contiene una piccola copia di sé stessa, ripetendo la sequenza apparentemente all’infinito. Trae origine dal linguaggio araldico e  sta a significare la ripetizione di una stessa figura dentro il campo di uno stemma nobiliare che viene riprodotta più di una volta, sempre più, ma sempre uguale e sempre all’interno di se stessa, come nelle scatole cinesi.

In letteratura la – mise en abyme – indica un particolare tipo di  “storia nella storia”, perché la storia a livello più basso riassume alcuni aspetti della storia di livello più alto.

Un esempio stupido tratto dalle mie reminescenze della vita liceale: due amici si incontrano e…

-Dove Vai?- -Al Cinema.- -A vedere cosa?- -Quo Vadis- -Che cosa vuol dire?- -Dove vai?- -Al cinema….

o anche…

“C’era una volta un re, seduto sul sofà, che disse alla sua serva “raccontami una storia!” E la storia incominciò: “C’era una volta un re, seduto sul sofà, che disse alla sua serva “raccontami una storia!” E la storia incominciò. …

Maurits Cornelis Escher, Drawing hands, 1948
Rene Magritte, Les deux mysteres

Johannes Gumpp, Autoportrait, 1646
Norman Rockwell, Triple autoportrait, 1960
Henry Lartigue

Il tema dell’artista che rappresenta se stesso è, come vediamo, un espediente molto utilizzato in pittura ed in fotografia. Crea una circolarità che rimbalza tra la copia e la copia della copia per riversarsi addosso al lettore.

Brassaï, group in a dance hall, 1932

Nella fotografia, Brassaï è tra gli autori che hanno messo in opera questa tecnica più frequentemente. Qui è mostrata una delle sue immagini più famose: rappresenta delle coppie sedute ai due lati di un tavolo, in un caffè di Montmartre; sono colte in un momento tra la noia e il divertimento. In questa immagine la situazione nello spazio ‘reale’ è raddoppiata dal suo riflesso nello spazio virtuale dello specchio, situato all’interno del campo fotografico. Lo specchio riflette non solo i personaggi che vediamo in primo piano, ma anche altri non direttamente inquadrati, ampliando lo spazio della visione.
L’espediente della messa en abyme mostra inoltre che le fotografie stesse sono immagini virtuali che non fanno che duplicare il mondo del reale. Anche i personaggi “reali” che vediamo nella foto, pertanto, sono né più né meno virtuali di quelli nello specchio, perché anche loro “riflessi” dallo “specchio” della macchina fotografica. In questo modo la superficie della fotografia, ponendo allo stesso livello i due gradi di realtà, “mostra” l’essenza stessa della rappresentazione fotografica, come Gumpp e Rockwell mostravano nelle loro rappresentazioni il procedimento stesso della rappresentazione pittorica.

Nel momento in cui produciamo una foto, abbiamo messo nella realtà una piccola copia di essa: la stessa fotografia è per Brassaï una mise en abyme.
Egli infatti amava ripetere: “Il surrealismo delle mie immagini non è altro che il reale reso fantastico dalla visione”. Cercavo solo di esprimere la realtà, in quanto niente è più surreale.” (Da una intervista pubblicata su Photo–Revue nel 1974). Un interessante articolo Craig Owens esplora il mondo abissale di Brassaï e può essere trovato qui: http://www.ecolemagasin.com/IMG/pdf/owens.pdf

Il potere della fotografia nella fotografia

Jakob Owens
Kenneth Josephson, Stato di New York, 1970
Guy Bourdin

Sopra una foto della serie Mise en Abyme, del famoso fotografo di moda Guy Bourdin. La serie accosta le fotografie a colori dei suoi servizi fotografici alle Polaroid in bianco e nero scattate per studiare l’ambientazione e preparare il lavoro.

Studio Hipgnosis, Copertina album Ummagumma, Pink Floyd, 1969
Martin Schoeller, George Clooney
Vivian Mayer, self portraits

Vivian Mayer fa uso di questa soluzione espressiva in molti dei suoi autoritratti nei quali, non solo la sua immagine riflessa, ma anche la sua ombra si rincorrono in una staffetta tra reale e virtuale.

Concludo, per così dire, con un’immagine della serie Vera fotografia, di Mimmo Iodice che mette in opera una Mise en abyme molto sottile scrivendo le parole “Vera fotografia” con una penna reale, in blu, sulla fotografia della sua mano che scrive su un foglio.

Mimmo Iodice, Vera fotografia

Bruno Manunza

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Intersezioni. Commento ad una foto di Paolo Enrico.

Il livello dei contenuti o, come in qualche caso avrebbe detto John Szarkowsky: “The thing itself”, il soggetto, la cosa in sè.

Una piccola piazza, a Milano, un giorno grigio e piovoso, come si deduce dal’abbigliamento delle poche persone nella foto e dall’ombrello aperto in primo piano, una fontana a più getti (ancora acqua) bagna un grande parallelepipedo in vetro, trasparente, che invade la scena centralmente occupandone la quasi totalità. Un moderno palazzo, in vetro cemento molto squadrato, al centro della foto, fa da sfondo e, di lato, fanno ala le palazzine ai bordi della piazza. Sulla sinistra un grande manifesto con un volto maschile che guarda davanti a sè; sulla destra dell’immagine la pubblicità di un’automobile si riflette sulla grande vetrata trasparente, mostrando una figura di donna ed una vettura. Un livello ricco di elementi e di dettagli rivelatori (… ancora Szarkowsky).

Il livello plastico.

L’immagine presenta un piano di simmetria verticale che la divide in due metà quasi equivalenti, inoltre la fotografia contiene una serie di elementi ricorsivi che ritmano la sua lettura: le linee verticali dei getti della fontana, e quelle sull’edificio posteriore, spingono lo sguardo verso l’alto e scandiscono l’inquadratura da sinistra a destra. Da sinistra e da destra, le fughe delle linee prospettiche sugli edifici laterali spingono verso il centro dell’immagine con una forte azione dinamica.

Come evidenziato negli schemi seguenti la diagonale discendente unisce il volto nel manifesto pubblicitario  con il passante in basso a destra generando un senso di interazione mentre la diagonale ascendente incornicia i due passanti in primo piano, peraltro collocanti sulla linea dei terzi di sinistra. Le due linee dei terzi di sinistra e destra delimitano l’edificio al centro in maniera rigorosa, i getti della fontana sono limitati, in alto, dalla mediana orizzontale. Il risultato è un posizionamento degli elementi della scena sapiente e molto ben organizzato.

Quando poi l’immagine è confontata con la geometria della spirale aurea vediamo che questa, avvolgendosi ricomprende gli elementi umani della scena trovando poi il suo punto di massima attrazione nella coppia in primo piano. Il triangolo aureo (linee azzurre), quel particolare triangolo che si forma tracciando dagli spigoli dell’inquadratura la perpendicolare alle diagonali del rettangolo, guida direttamente dal volto in alto nel manifesto alle figure in primo piano con l’ombrello.

L’immagine sfrutta la presenza di una serie di piani paralleli non ostrusivi (fontana, struttura in cristallo) per definire profondità e distanze, le linee di fuga degli edifici rendono recessivo lo spazio della fotografia attraendoci verso lo sfondo. Ancora, le linee tracciate dalla direzione dei movimenti e dei camminamenti stabiliscono una direzione privilegiata, da sinistra a destra, quella dell’ingresso. Globalmente una  immagine che trascina lo sguardo nella sua esplorazione.

La cromia. I toni sono freddi o grigi. Tutte le figure sono scure. Le uniche note calde, che agiscono da attrattori, sono nel riflesso della pubblicità in alto sulla superficie di vetro e nella vetrina in basso a destra verso cui sembra dirigersi la figura solitaria sulla destra della scena.

Lo spazio mentale

Ci troviamo in uno spazio aperto urbano, grigio e piovoso come suggerisce l’ombrello aperto in primo piano. L’acqua dai getti della fontana, rafforza questa sensazione. Rare figure si muovono, reali e inespressive, in questo spazio, senza nessuna interazione con l’osservatore o tra loro. Gli unici agganci avvengono virtualmente attraverso lo sguardo della figura sul manifesto e quello della donna nella pubblicità dell’auto, che appare rivolta verso di noi, confusa nei riflessi sul vetro. Dobbiamo cercare contatto e ingaggio in un mondo posticcio reale che, dall’alto sembra sorvegliare e controllare i pochi abitanti della scena che l’attraversano fuggevolmente, diretti altrove. Le icone della pubblicità vi giganteggiano e la abitano in permanenza. Loro sembrano i veri padroni del luogo. Un luogo irreale quasi fantascientifico che richiama alla mente altre immagini con altre icone che controllano dall’alto e cercano un dialogo con noi. Una citazione per tutte, tratta da Blade Runner (il primo) che penso Paolo Enrico apprezzerà…

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Il saggio. Lettura di un’immagine di Paola Fiori

Saggio. Di Paola Fiori


L’immagine mostra una serie di volti infantili. Intenti ad osservare qualcosa che avviene sulla destra, forse un saggio di danza, come suggerisce il titolo. L’espressione dei loro volti non mostra tanto divertimento quanto coinvolgimento, tensione ed una concentrazione quasi sofferta ed estatica. Tra loro, (il momento decisivo!) per un istante lo sguardo di una bambina abbandona lo spettacolo in corso e si fissa, in apparenza divertito, sul fotografo; è uno sguardo che ingaggia una relazione con il fotografo e, in subordine, con noi. Un aura di luce sembra avvolgere i volti dei tre bambini in primo piano al centro dell’inquadratura estraendoli e proiettandoli in avanti.
Sul piano plastico notiamo come l’uso del bianco nero accentua la forza delle espressioni sui visi, comprimendo verso i neri gli altri elementi della scena. La lieve riduzione della nitidezza sottolinea l’atmosfera un po’ fiabesca della foto.

L’inquadratura presenta un’asse di simmetria centrale ben riconoscibile ma pronunciatamente inclinato verso sinistra, al tempo stesso sono presenti elementi compositivi che conferiscono un forte dinamismo alla scena.

L’insieme dei volti forma una serie di rime eidetiche (evidenziate dai cerchi chiari nello schema a destra in basso) ben allineate lungo la griglia dei terzi e lungo le linee diagonali che conferiscono dinamicità all’inquadratura. Il volto tagliato all’estremità sinistra nulla toglie alla costruzione della fotografia e del racconto.  I volti delle tre bambine in primo piano sono collocati ai vertici del rettangolo aureo, il rettangolo interno della griglia dei terzi. Una composizione efficace e ineccepibile. Esemplare viene da dire.

Ancora, i volti dei cinque bambini in primo piano sono inscritti in una circonferenza, un cerchio ideale di coinvolgimento e coesione emotiva, a fare da satelliti a questo pianeta due volti più distanti, a sinistra e a destra. il diametro della circonferenza si prolunga fino a raggiungerli, unendoli al gruppo. L’asse  mediano del cerchio e il diametro risultano  angolati con decisione rispetto ai bordi della fotografia. Non un difetto bensì un esempio classico di inquadratura “olandese”, una scelta efficace per sottolineare la tensione dipinta su quei volti.

L’angolo olandese o piano olandese (Dutch angle o Dutch tilt) è una tecnica di ripresa usata nel nel cinema, in fotografia e in altre arti visive, che si ottiene con una decisa inclinazione laterale della macchina da presa o della fotocamera durante l’inquadratura, in modo che l’orizzonte risulti in diagonale rispetto ai bordi dell’immagine. Tale tecnica, introdotta agli inizi del ‘900 dal cinema espressionista tedesco, viene utilizzata quando si vuole rappresentare una situazione di disagio, tensione, alterazione dello stato di coscienza o squilibrio psicologico. Sul finire degli anni ’30, la tecnica fu adottata dai cineasti di Hollywood, che la ribattezzarono Dutch angle, facendo confusione tra la parola tedesca Deutsch, che significa “tedesco”, e la parola Dutch, che in inglese significa “olandese”.È nota in inglese anche come german angle, canted angle e Batman angle e in francese come plan débullé o plan cassé.

La direzione degli sguardi, salvo due eccezioni, ci porta da sinistra a destra con decisione, lasciando intuire come il centro dell’attenzione si trovi al di fuori dello spazio rappresentato. Siamo perfettamente consapevoli che, fuori dai confini dell’inquadratura il mondo continui e si svolga qualcosa di essenziale. Una inquadratura decisamente attiva, secondo la definizione introdotta da Stephen Shore, di cui abbiamo parlato spesso nei corsi di linguaggio.

Il “punctum” nella foto. Barthes, ne “La Camera Chiara” introduce un concetto: il Il punctum, in cui si materializza l’aspetto emotivo, ove lo spettatore viene irrazionalmente colpito da un dettaglio particolare della foto. Non è evidente in ogni foto e spesso è un elemento personale ma, in questa foto è immediatamente identificato negli occhi della bambina che guarda verso di noi. Un elemento di forte ingaggio e coinvolgimento.

Nell’arte quattrocentesca una figura era quasi sempre presente nelle rappresentazioni teatrali e pittoriche, il cosiddetto Ammonitore o “festaiuolo”, solitamente un cherubino o un angelo che, guardando verso il pubblico doveva fare da mediatore tra il mondo reale e quello rappresentato. Un esempio per tutti, a fianco all’immagine di Paola, una raffigurazione della Vergine fatta da Botticelli.

In tempi recenti, l’introduzione di questa figura nell’arte ha assunto il senso di un richiamo all’autore, quasi come se la figura dell’ammonitore (il festaiuolo), o di altre figure assimilabili, fosse stata usata dagli artisti per implicare anche un altro protagonista di primaria grandezza (oltre allo spettatore), seppur invisibile agli occhi.

Il piano mentale. L’autrice pone un punto di ancoraggio nel titolo della fotografia: “Il Saggio” vincolando così lo spazio della nostra fantasia e completando la sua descrizione.  Resta l’interrogativo Cosa? Cosa accade che, al di là della gabbia della inquadratura, suscita tanta tensione e, in qualche volto, quasi sofferenza ed estasi? Anche qui, sembra di trovarsi di fronte al mistero del sacro e del magico, come mostrato nell’immagine di Botticelli e in tante altre rappresentazioni dell’adorazione.

Come sempre, grazie a Paola  per averci dato questi spunti di riflessione.

Bruno Manunza

bruno@antasfoto.net

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Figure nel mistero. Commento ad una fotografia di Estella

Analisi di Senza Titolo, di Estella.

  • Il piano figurativo. Poiché la fotografia è proposta tramite la rete, il piano fisico è dato per scontato e piano; su di esso l’autore non ha margini per intervenire. L’analisi quindi inizia dal livello dei contenuti. La foto è a colori, senza evidenti modifiche dei colori originali. Una figura apparentemente infantile, un bambino?, con indosso una giacca gialla con cappuccio, si staglia, nella parte alta del fotogramma, contro un rettangolo di cielo azzurro. Guarda in camera. Ai suoi piedi una lunga striscia di mattonelle forma una sorta di passerella che si estende per i 5/6 del fotogramma guidando dal margine basso sino al soggetto in alto. Alla destra del soggetto, le sagome di due lampioni sembrano echeggiarlo. La luce decisa proviene dalla destra, bassa, e mette in evidenza la scultura delle mattonelle accentuandone la sensazione di consistenza.
  • Il livello plastico, piano visuale. L’immagine presenta una forte simmetria bilaterale con destra e sinistra che si specchiano l’una nell’altra. Fa eccezione la presenza dei due fanali in alto sulla destra e l’asimmetria delle ombre, la scena infatti è illuminata con decisione dalla luce solare proveniente da destra. Orizzontalmente l’immagine  è divisa in due fasce, la parte bassa, con il tracciato delle mattonelle, che assume il tono caldo della luce solare; la parte alta, un sottile rettangolo azzurro, contrasta in maniera decisa, con il suo tono freddo. In questo campo il soggetto vestito di giallo crea un ulteriore motivo di contrasto che ne evidenzia la presenza. Le linee guida dei terzi (in rosso) separano tre bande verticali e tre orizzontali che corrispondono con buona approssimazione alle demarcazioni suggerite dagli elementi presenti. Con maggiore forza, le divisioni nella griglia della proporzione aurea (verde) stringono sulla fascia verticale  centrale, quella contenente il soggetto, e riprendono le forti demarcazioni visibili sul tracciato del pavimento. In questa ripartizione di spazi il rettangolo del cielo divide a metà il riquadro alto. Tutto considerato un posizionamento felice degli elementi della scena.

 

Le linee guida. La nostra attenzione è portata verso il soggetto dal percorso delle fughe prospettiche sul tracciato della pavimentazione. Queste producono una serie di linee di forza convergenti sul soggetto. Lo spazio nell’immagine è fortemente recessivo e ci trascina verso l’estremo alto, grazie ad una scelta appropriata del punto di presa. L’immagine in questo modo si caratterizza per il suo forte dinamismo.

Rime eidetiche, o rime visive. La solitudine del soggetto, che si presenta come un segno verticale isolato nell’asse mediano, è attenuata da due elementi verticali, due lampioni, che, a breve distanza, gli fanno il verso, compagni inanimati che danno la sensazione di osservarlo da presso.

  • Il piano mentale. L’immagine pone degli interrogativi che sembrano senza risposta. Le prime cose su cui la mente si interroga, osservando una fotografia, sono normalmente il quando, il dove, il perchè. La presenza forte della figura in alto nell’inquadratura, unica ed una, isolata ed evidente, che guarda verso di noi determinando coinvolgimento sembra sollecitare risposte. Una massima del giornalismo americano, insegnata a tutti gli allievi delle scuole, recita che ogni notizia deve rispondere alle cinque W: who, where, when, what e why: Chi, dove, quando, cosa e perchè. Abilmente il fotografo ci sottopone con forza questo corollario di domande lasciando a noi un tentativo di risposta, mostrandoci un mondo arcano, solitario, regolare e artificiale privo di qualsiasi elemento naturale, di interazioni edi azioni. Un mondo sospeso nel tempo, e suggestivamente mentale.  Il richiamo forte è all’arte metafisica e ai cantori della solitudine, De Chirico, Hopper… Viene quindi naturale l’associazione seguente con “Il grande metafisico” un dipinto di De Chirico del 1971. Grazie ad Estella per averci suggerito queste riflessioni.

Bruno Manunza.

 

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Volatori. Commento ad una foto di Fabrizio

Salve a tutti, profittando del tempo a disposizione, comincio a sviluppare un’idea che ho in mente da un po’: commentare qualcuna delle foto che postate nel gruppo. Spero l’idea non vi dispiaccia e, magari. vi incoraggi a esporvi. E’ un lavoro che ho già fatto in passato con qualcuna delle vostre foto e lo riprendo volentieri.

Comincio con la foto postata da Fabrizio qualche giorno fa. Seguiranno le altre. Se a Fabrizio non spiace posterò l’immagine nella pagina e nel blog di Squolafotografica, così che possa eventualmente condividere il commento. Cosa impossibile da questo gruppo.

  • Cominciamo con il livello figurativo: due elementi facilmente riconoscibili si stagliano in un campo omogeneo azzurro, il cielo. Un grande uccello in volo planato esibisce la sua silhouette accompagnando la sagoma di un a persona e del suo paracadute, anch’essi apparentemente in volo librato. Pochi elementi per un’immagine minimale ma densa di contenuti.
  • Il livello visuale o plastico. La foto presenta una cromia ridotta ai toni del blu, del nero, con un intromissione di toni molto caldi sull’ala del paracadute. Un minimo di toni che produce un contrasto cromatico pronunciato e sostiene l’attenzione e la tensione emotiva. Le due figure significative, l’uccello e l’uomo con il suo paracadute delineano tre diagonali che dividono il fotogramma in spazi pieni e vuoti a forma di trapezio che si ribaltano uno nell’altro creando simmetria nella scena.

  • gli elementi  nella foto, inoltre appaiono rispettare i classici canoni della proporzione aurea, collocandosi con buona approssimazione nel punto di attrazione della spirale, una soluzione questa, consapevole o meno, che denota un discreto gusto nel fotografo e sostiene bene il racconto.

  • Ben osservata anche la regola dei terzi con la figura dell’uono collocata lungo il terzo alto e l’ala del paracadute che percorre il terzo di sinistra mentre l’uccello approssima bene l’incrocio tra le linee alta e di destra dei terzi. la linea che unisce l’uomo al suo paracadute corre parallelamente alla diagonale discendente favorendo la sensazione di una discesa o di uno scivolamento verso il basso mentre l’uccello sembra quasi stazionario lungo la diagonale ascendente. Questo, in qualche modo sembra stabilire una gerarchia e contribuisce alla narrazione.

  • Sempre sul livello visivo va notata la presenza di una rima eidetica prodotta dalla ripetizione delle figure delle ali nei due soggetti. Questo fa entrare in gioco un’altra figura retorica importante e forte: la ripetizione.
  • Il piano mentale e le associazioni. L’immagine è giocata su alcuni contrasti, quindi la principale figura retorica associata è l’antinomia, giocata sul contrasto tra grande e piccolo, naturale e artificiale, uomo e animale, volatore e non volatore. Questo apre naturalmente lo spazio all’immaginazione del lettore. Una facile associazione è richiamata nella cultura occidentale dalla sfida rivolta da Icaro alla natura e in questa immagine l’associazione è richiamata con forza se si ripensa ad alcuni dipinti classici che raffigurano la leggenda di Icaro e Dedalo. Nell’immagine di seguito riprendo la rappresentazione realizzata nella bottega del Tintoretto attorno al ‘500.

Vi ringrazio e ringrazio Fabrizio per avermi dato l’occasione di questa lettura.

Bruno Manunza

 

 

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Still life e altro… Commento ad una foto di Rossella

Una fotografia scattatami mentre parlavo durante lo scorso workshop di still life mi offre il pretesto per un’analisi interessante.

Come spesso dico nelle mie lezioni l’occhio cerca la luce ed i dettagli. E, in questa foto, trova di che soddisfarsi nella densità di elementi ricorrenti che la affollano, ritmando il percorso dello sguardo. I CD, i libri e i divisori degli scaffali, creano una trama sulla quale l’occhio si appoggia, invitato a percorrere l’intera scena. Questa fotografia mi consente anche di tornare su uno degli argomenti che affronto spesso: le rime eidetiche; quelle ripetizioni di strutture che costituiscono un richiamo ed un rafforzamento del messaggio, evidenziate nell’immagine uccessiva in giallo, rosso, blu  e verde. Strutture piacevolmente curve, triangolari, verticali e rettangolari o quadrate che si ripetono nella foto, funzionando, per l’occhio come le rime scritte o verbali per l’orecchio e il cervello…

 

C’è poi uno sguardo attento alla regola dei terzi e all’uso delle diagonali (foto sotto); la diagonale ascendente si sovrappone alla diagonale dello schermo mentre le mediane orizzontali e verticali spartiscono il set in maniera molto elegante. La diagonale discendente accompagna lo sguardo del soggetto verso l’elemento misterioso (la testa del flash) che entra in campo dall’alto.

Questo per quanto concerne il piano plastico o visuale, il piano mentale si nutre della ricchezza di oggetti e di contenuti apparentemente privi di legame a cui dare una spiegazione e un senso.

Un ritratto per il quale ringrazio Rossella Arcadu, l’autrice, che mi ha lusingato e affascinato per l’efficacia e la densità del messaggio. Come dovrebbe fare il fotografo, ha imposto al caos del set un ordine ed un significato.

Bruno Manunza.

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Il ritratto fotografico

La fotografia di ritratto: tecnica, estetica e ricerca nel ritratto fotografico

Il corso si propone di formare fotografi in grado di realizzare un progetto di ritratto, capaci di entrare in relazione con il soggetto e di costruire storie e narrazioni attraverso questo genere fotografico. I partecipanti impareranno a conoscere le principali tecniche di ripresa e illuminazione e a sviluppare sensibilità a livello estetico e di composizione dell’immagine. Il corso combina lezioni teorico/tecniche, dimostrazioni ed esercitazioni pratiche per consentire ai partecipanti di vivere l’esperienza diretta sul campo in studio fotografico e di misurarsi con la realizzazione di immagini che saranno poi editate in post produzione.

Iscrizioni e info: info@antasfoto.net

Durata:

otto lezioni: cinque in aula e tre sessioni di shooting su temi differenti.

Programma in sintesi:

  • Introduzione al genere fotografico e autori principali
  • Estetica del ritratto
  • Lo stile personale nel ritratto: il genere tra indagine e ricerca
  • Studio fotografico: attrezzatura, illuminatori, fondali ed accessori
  • Allestimento del set per riprese di ritratto
  • Principali schemi d’illuminazione per la ripresa fotografica in studio
  • Inquadratura e soggetto, il punto di vista
  • Uso delle diverse ottiche nella ripresa di ritratto
  • Il rapporto col soggetto
  • Il ritratto ambientato: cos’è e da cosa è caratterizzato
  • Autori di ritratto ambientato ed elementi di linguaggio
  • Esercitazioni
  • Elementi di post produzione
  • Valutazione immagini realizzate

Gli estratti del materiale didattico impiegato saranno resi disponibili in formato digitale nel rispette delle leggi sul diritto d’autore.

Tempi e luoghi… Sassari, incontri in aula alla libreria Koine, una lezione alla settimana dopo le 20. Sessioni di ripresa da definire all’interno del corso. Chiusura iscrizioni 20 gennaio salvo esaurimento anticipato dei posti (8posti, alcuni già presi) per informazioni scrivere a: info@antasfoto.net

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