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Month: February 2021

La Fotografia, l’espressionismo astratto, e altre amenità.

Aaron Siskind Peeling Pant, 1950

L’Espressionismo astratto è una corrente artistica che si esprime attraverso il rifiuto della figura nell’arte visiva. Si sviluppa, a partire dal 1946, considerata come un fenomeno esclusivamente americano, per poi diffondersi rapidamente in tutto il mondo. Gli artisti esprimono le loro emozioni (espressionismo…) attraverso dipinti di carattere astratto.

Il termine Espressionismo astratto è utilizzato per la prima volta nel 1946 dal critico Robert Coates, che, in realtà, lo mutua dallo storico dell’arte Alfred Hamilton Barr, il quale lo aveva coniato nel 1919 per commentare un quadro di Vassily Kandinsky.

L’affermazione di questa corrente marca il passaggio della leadership artistica dall’Europa agli Stati Uniti.

Il nuovo movimento si afferma inizialmente a New York con opere di grandi dimensioni caratterizzate da superfici piatte, dall’abolizione della profondità e della prospettiva, dal rifiuto di tutto ciò che è accademia.

Accanto all’espressione pittorica assume importanza fondamentale – per la prima volta nella storia dell’arte – anche il gesto dell’artista che dipinge.

A quelli che si chiedono le ragioni di tanto successo faccio notare che il movimento attrasse l’attenzione, nei primi anni cinquanta, della CIA. Vi videro un mezzo ottimale per la promozione dell’ideale statunitense di libertà di pensiero e di libero mercato, uno strumento perfetto per competere sia con gli stili del socialismo realista prevalente nelle nazioni comuniste, sia con il mercato dell’arte europea, allora dominante. Il libro di Frances Stonor Saunders (La Guerra Fredda Culturale – The CIA and the World of Arts and Letters) spiega nel dettaglio come la CIA organizzò e finanziò la promozione degli artisti americani aderenti all’espressionismo astratto, tramite il Congresso per la libertà culturale dal 1950 al 1967.

Aaron Siskind (1903-1991) è stato un fotografo americano legato al movimento dell’espressionismo astratto, considerato uno dei maestri della fotografia del XX secolo. Può essere considerato tra i pionieri di questo modo espressivo, e accostato a Man Ray o a Moholy Nagy.

Inizia a fotografare quando riceve la sua prima macchina fotografica come regalo di nozze e la usa durante la luna di miele. Immediatamente comprende il potenziale artistico dell’apparecchio fotografico e ne fa la sua professione. Siskind diviene, allora, membro entusiasta del New York Photo League, un’organizzazione di fotografi dilettanti e professionisti specializzata nella documentazione sociale. Con il tempo la Lega Photo diventa l’unica scuola di fotografia non commerciale negli Stati Uniti, con il grande merito di formare una generazione di fotografi, tra cui Margaret Bourke-White e Berenice Abbott.

Siskind ne diventa il direttore e partecipa a progetti volti a documentare la vita dei quartieri durante “la Depressione”. A differenza, tuttavia, di altre serie documentali del periodo, nella serie Siskind’s Dead End: The Bowery e Harlem Document, l’artista americano mostra più preoccupazione per l’armonia del taglio e delle forme che per la documentazione della condizione sociale, concentrandosi sulla forma a scapito del contenuto sociale. Il lavoro di Siskind continua in questa direzione fino all’inizio del 1940, quando lascia la Lega Foto e inizia una relazione di intenti con i membri della Scuola di New York dell’espressionismo astratto.

Dopo la fine del 1930, infatti, le opere di Siskind si concentrano sui dettagli offerti dalla natura e dall’architettura, questi vengono presentati come delle superfici piatte per creare una nuova immagine indipendente dal soggetto originale. 

Nell’estate del 1950 Siskind incontra Harry Callahan quando entrambi insegnano al Black Mountain College. Callahan riesce a persuadere Siskind a raggiungerlo alla facoltà IIT dell’Institute of Design di Chicago (fondata da Lazlo Moholy-Nagy). Nel 1971 segue Callahan alla Rhode Island School of Design. 

Aaron Siskind

Abbandonato il realismo documentario, l’artista americano sfocia in un approccio astratto che nasce dal tentativo di esprimere gli stati d’animo della fotografia attraverso concetti che risultano più semplici della registrazione della materia. Le sue inquadrature, che hanno spesso per soggetto frammenti, diventano composizioni autonome in grado di esaltare la natura bidimensionale del mezzo fotografico.

Roger Catherineau fu un fotografo francese precursore dell’espressionismo astratto. Nato nel 1925 a Tours, in Francia, Roger Catherineau  si avvicinò alla pittura e  al disegno, per poi passare alla fotografia.

Roger Catherineau

Morì prematuramente nel 1962 e il suo lavoro rimase in gran parte sconosciuto fino alla riscoperta da parte dello storico Christian Bouqueret, negli anni novanta. 

Roger Catherineau

Il suo lavoro fu ispirato e dal celebre fotografo e insegnante tedesco Otto Steinert, fondatore del movimento “Fotoform” che si proponeva di far riscoprire le possibilità creative e le forme espressive dell’avanguardia fotografica d’anteguerra, che la politica culturale nazionalsocialista aveva completamente occultato. Steinert lo incluse nella mostra del  1954-55 e nel libro “Subjektive Fotografie 2.

Roger Catherineau

Catherineau e Steinert si concentrarono nello spostare la considerazione dello spettatore dal semplice oggetto, ambiente, paesaggio o persona, verso implicazioni diverse e più profonde

Roger Catherineau

Grazie all’uso del linguaggio astratto, Catherineau incentrò l’attenzione sull’apporto che la visione del mondo dell’autore poteva dare all’immagine creata. Da artigiano della camera oscura,  Catherineau esplorò diverse tecniche di espressione. Attraverso manipolazioni, solarizzazioni, doppie esposizioni, stratificazioni con vernici e inchiostro sul vetro, il fotografo francese riuscì a dare alla fotografia una profondità senza eguali, abbandonando le due dimensioni di rappresentazione.

L’astratto italiano

Uno dei maestri dell’Astrattismo è l’italiano Luigi Veronesi (1908-1998). Pittore e grafico, Veronesi ha praticato il fotogramma e altri tipi di esperimenti con la luce dagli anni Trenta fino agli Ottanta del Novecento. Nel 1956, in anni successivi al momento delle avanguardie storiche quindi, scrive: “Il fotogramma, cioè l’immagine luminosa ottenuta senza la macchina fotografica, è il segreto della fotografia. […] Il fotogramma rientra, nella maggior parte dei casi, in quell’orientamento ‘metafisico’ o ‘astratto’ che ha influenzato e condizionato buona parte di tutta l’arte contemporanea”.

Luigi Veronesi, Sovrimpressione (fotogramma e fotografia), 1937
Luigi Veronesi, Fotogramma, 1979

Paolo Monti (1908-1982) è un sensibile conoscitore dell’Informale e dell’Action Painting, nonché dell’arte classica, quando sviluppa, a partire dagli anni Cinquanta e fino a tutti gli anni Settanta, ricerche sulle forme astratte rinvenibili nelle materie delle rocce, delle acque, dei legni, dei muri; oltre che con la ripresa diretta lavora anche con rotazioni della macchina fotografica, fotogrammi, chimigrammi, sovrimpressioni, studi sulla diffrazione della luce. Nel 1978 scrive: “Alcuni trovano nelle mie fotografie un eccessivo gusto per le forme e altri per l’astratto e forse con qualche loro seria ragione; sta di fatto però che fra le prime cose che conosciamo dalla lontanissima storia dell’uomo troviamo una severa esigenza della forma e in certe epoche della forma astratta. […] sono così un collezionista di foto di muri, di manifesti, come delle vere forme astratte della natura e dico ‘astratte’ per analogia formale (o meglio, informale)”.

Paolo Monti, Senza Titolo, 1954

Paolo Monti, dalla serie Santarcangelo di Romagna, 1972 / stampa 1993

Mario Giacomelli (1925-2000), con le sue ripetute ricerche sul paesaggio agricolo coltivato dall’uomo, sviluppate a partire dagli anni Cinquanta, inventa una sorta di Astrattismo di tono espressionista, comunque riferibile, in un particolare mescolamento, a una sensibilità informale. I solchi della lavorazione dei campi e le forme delle colline diventano forti segni di sapore tipografico: l’elemento reale talvolta sopravvive e talvolta si perde nel crudo bianco e nero, in una lotta con la materia e con la terza dimensione, spesso azzerata.

Mario Giacomelli, dalla serie Presa di coscienza sulla natura, 1982 ca.

Con le neoavanguardie la fotografia prende coscienza dei suoi codici e in un importante processo autoriflessivo indaga se stessa come medium: in questo tipo di indagine spesso il soggetto passa in secondo piano, e dunque anche la rappresentazione (si pensi ad alcune Verifiche di Ugo Mulas (1928-1973) dell’inizio degli anni ’70, nelle quali la quadrettatura dei provini e la scelta di soggetti minimi creano, in fondo, dei piccoli tableau astratti).

Franco Fontana, Paesaggio. Basilicata, 1978

In anni recenti l’interesse da parte dei fotografi, italiani e non, nei riguardi dell’astratto non risponde più a criteri né a poetiche omogenee; Roberto Masotti (1947), in alcuni lavori degli anni Novanta dedicati alla natura, esplicita un sottile, elegante legame con la Land Art e, grazie all’inquadratura stretta sulla superficie della pietra, crea un effetto evocativo proprio in quanto l’immagine vive di una sua strana dimensione astratta; Silvio Wolf (1952), con i suoi Horizons degli anni Duemila, che rimandano un poco alle stesure di Rotchko, riflette sulla materia della pellicola fotografica

Silvio Wolf Horizons

Colori

«Ernst Haas ha fatto del colore loggetto stesso della sua ricerca. Nessun fotografo prima di lui era mai riuscito a esprimere così magistralmente la gioia pura e fisica del vedere», ha detto John Szarkowski, conservatore del Museo di Arte Moderna di New York, che nel 1962 gli dedica la prima mostra personale mai realizzata su un’opera fotografica a colori.

Ernst Haas

Le sue teorie e le tecniche fotografiche che ne scaturiscono, sono in grado di muoversi tra lo spazio e il tempo, incentrandosi sul colore e sul movimento. Considerato il primo a valorizzare il colore e l’effetto mosso, legittimando artisticamente un tipo di ripresa dai contenuti espressivi fortemente emozionali, fino a quel momento sottovalutata, facendone il suo tratto distintivo. Per lui l’immagine non è statica, il movimento la rende viva e gli conferisce la giusta vocazione, fino a farne elemento fondamentale del proprio modo di esprimersi. Il colore e il movimento per lui fungono da liberazione; forte dell’odio per le regole nell’arte, non rinuncia mai alla propria libertà stilistica.

Ernst Haas
Ernst Haas

Harry Callahan
Harry Callahan divenne il capo del Dipartimento di Fotografia del Chicago Institute of Design nel 1949. Ha sperimentato di tutto, dai nudi ai botanici, ma è particolarmente noto per la sua “micro fotografia paesaggistica” in cui mostrava piccoli cespugli di erbacce che crescevano nella neve come foreste isolate.

Harry Callahan, “New York City,” 1974.
Harry Callahan Weed Against Sky, Detroit, 1948

Il fotografo e regista francese americano William Klein è stato un famoso fotografo di moda per la rivista Vogue negli anni ’50. La sua fotografia è considerata rivoluzionaria per il suo “rifiuto senza compromessi delle regole della fotografia allora prevalenti”, come affermato nel manuale di fotografia del Museo Ludwig nel XX secolo.

William Klein, “Atom Bomb Sky, New York,” 1955.

Ola Kolehmainen. Nata nel 1964 è una fotografa finlandese le cui fotografie sono incentrate principalmente sull’architettura moderna. Usa lo spazio, la luce e il colore per rappresentare le strutture in modo più astratto, basandosi sul misticismo che irradiano.

Ola Kolehmainen, “L’Hotel,” 2002.

Alcuni miei lavori degli ultimi anni che si muovono dentro questo binario:

Bruno Manunza Arcipelago Verde, 2011
Bruno Manunza Arcipelago Verde, 2011
Bruno Manunza Arcipelago Verde, 2011
Bruno Manunza Dai mari, 2009
Bruno Manunza Dai mari, 2009
Bruno Manunza Chaos, 2015
Bruno Manunza E non verde, 2015
Bruno Manunza Chaos, 2010
Bruno Manunza Chaos, 2010

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Nell’abisso

Guy Bourdin dalla serie Mise en abyme
pubblicità per il marchio di scarpe Charles Jourdan, primavera 1978

C’è un’espressione usata per indicare uno stragemma narrativo nell’arte: MISE EN ABYME , dal francese “messa in abisso”.

Significa collocazione nell’abisso.

E’ un termine introdotto da André Gide per indicare un espediente narrativo che prevede la ripetizione di una sequenza di eventi o la collocazione di una sequenza esemplare che condensi in sé il significato ultimo della vicenda in cui è collocata e a cui rassomiglia.

Nella pittura e nella fotografia, l’espressione indica una tecnica nella quale un’immagine contiene una piccola copia di sé stessa, ripetendo la sequenza apparentemente all’infinito. Trae origine dal linguaggio araldico e  sta a significare la ripetizione di una stessa figura dentro il campo di uno stemma nobiliare che viene riprodotta più di una volta, sempre più, ma sempre uguale e sempre all’interno di se stessa, come nelle scatole cinesi.

In letteratura la – mise en abyme – indica un particolare tipo di  “storia nella storia”, perché la storia a livello più basso riassume alcuni aspetti della storia di livello più alto.

Un esempio stupido tratto dalle mie reminescenze della vita liceale: due amici si incontrano e…

-Dove Vai?- -Al Cinema.- -A vedere cosa?- -Quo Vadis- -Che cosa vuol dire?- -Dove vai?- -Al cinema….

o anche…

“C’era una volta un re, seduto sul sofà, che disse alla sua serva “raccontami una storia!” E la storia incominciò: “C’era una volta un re, seduto sul sofà, che disse alla sua serva “raccontami una storia!” E la storia incominciò. …

Maurits Cornelis Escher, Drawing hands, 1948
Rene Magritte, Les deux mysteres

Johannes Gumpp, Autoportrait, 1646
Norman Rockwell, Triple autoportrait, 1960
Henry Lartigue

Il tema dell’artista che rappresenta se stesso è, come vediamo, un espediente molto utilizzato in pittura ed in fotografia. Crea una circolarità che rimbalza tra la copia e la copia della copia per riversarsi addosso al lettore.

Brassaï, group in a dance hall, 1932

Nella fotografia, Brassaï è tra gli autori che hanno messo in opera questa tecnica più frequentemente. Qui è mostrata una delle sue immagini più famose: rappresenta delle coppie sedute ai due lati di un tavolo, in un caffè di Montmartre; sono colte in un momento tra la noia e il divertimento. In questa immagine la situazione nello spazio ‘reale’ è raddoppiata dal suo riflesso nello spazio virtuale dello specchio, situato all’interno del campo fotografico. Lo specchio riflette non solo i personaggi che vediamo in primo piano, ma anche altri non direttamente inquadrati, ampliando lo spazio della visione.
L’espediente della messa en abyme mostra inoltre che le fotografie stesse sono immagini virtuali che non fanno che duplicare il mondo del reale. Anche i personaggi “reali” che vediamo nella foto, pertanto, sono né più né meno virtuali di quelli nello specchio, perché anche loro “riflessi” dallo “specchio” della macchina fotografica. In questo modo la superficie della fotografia, ponendo allo stesso livello i due gradi di realtà, “mostra” l’essenza stessa della rappresentazione fotografica, come Gumpp e Rockwell mostravano nelle loro rappresentazioni il procedimento stesso della rappresentazione pittorica.

Nel momento in cui produciamo una foto, abbiamo messo nella realtà una piccola copia di essa: la stessa fotografia è per Brassaï una mise en abyme.
Egli infatti amava ripetere: “Il surrealismo delle mie immagini non è altro che il reale reso fantastico dalla visione”. Cercavo solo di esprimere la realtà, in quanto niente è più surreale.” (Da una intervista pubblicata su Photo–Revue nel 1974). Un interessante articolo Craig Owens esplora il mondo abissale di Brassaï e può essere trovato qui: http://www.ecolemagasin.com/IMG/pdf/owens.pdf

Il potere della fotografia nella fotografia

Jakob Owens
Kenneth Josephson, Stato di New York, 1970
Guy Bourdin

Sopra una foto della serie Mise en Abyme, del famoso fotografo di moda Guy Bourdin. La serie accosta le fotografie a colori dei suoi servizi fotografici alle Polaroid in bianco e nero scattate per studiare l’ambientazione e preparare il lavoro.

Studio Hipgnosis, Copertina album Ummagumma, Pink Floyd, 1969
Martin Schoeller, George Clooney
Vivian Mayer, self portraits

Vivian Mayer fa uso di questa soluzione espressiva in molti dei suoi autoritratti nei quali, non solo la sua immagine riflessa, ma anche la sua ombra si rincorrono in una staffetta tra reale e virtuale.

Concludo, per così dire, con un’immagine della serie Vera fotografia, di Mimmo Iodice che mette in opera una Mise en abyme molto sottile scrivendo le parole “Vera fotografia” con una penna reale, in blu, sulla fotografia della sua mano che scrive su un foglio.

Mimmo Iodice, Vera fotografia

Bruno Manunza

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