Skip to content →

Squolafotografica Posts

Gente di Fotografia, Editoriale

Vale, vale molto, la pena o meglio il piacere, di leggere… Grazie Franco per delle riflessioni così ben esplicitate 🙂

L'immagine può contenere: una o più persone
Franco Carlisi

Editoriale #66 GdF. Franco Carlisi – Temo di aver contratto una specie di anoressia verso le fotografie. Credevo che non mi sarebbe mai successo, ma, evidentemente, ho visto e subito troppe mostre noiose.
Non si tratta di un pregiudizio ideologico ma di un mio limite, certamente.
In vero, forzandomi a un’innocenza anacronistica ho cercato di ampliare il mio campo di percezione, di farmi piacere ciò che non mi piace -ma che comprendo perfettamente-, costringendomi a una dieta di passioni sopite, di orgoglio rimosso, di opere senza sale. Non sono riuscito ad andare oltre la constatazione che la fascinazione del concetto che sorreggeva questa o quella mostra e la sua dimensione verticale, svanissero di fronte all’assoluta orizzontalità delle opere, senza qualità, atonali, monocordi. Entravo a visitare le mostre con un autentico desiderio d’intensità emotiva e intellettuale e ne uscivo con un vago rimorso, come se mi fossi macchiato di un’oscura disubbidienza. Col senso di colpa di chi, a proprio danno, ha difeso una posizione liminare, ribadendo l’estraneità a una fede conformista che con l’obbedienza ai suoi dogmi avrebbe garantito la salvezza della propria anima. Non è una metafora: si può essere accusati di eresia se si contesta il paradigma concettuale dell’arte contemporanea. Il valore dell’opera non consiste nella sua qualità formale o materiale, ma è determinato da quello che potremmo definire il suo “valore aggiunto”, cioè da una serie di elementi circostanziali e da una serie di fattori ragionati a tavolino e messi in atto attraverso le strategie di comunicazione e di marketing. Tutto ebbe inizio con i ready-made di Marcel Duchamp, oggetti di uso comune trasformati in opere d’arte per la loro semplice collocazione in un museo o in una galleria. Qualsiasi oggetto, anche insignificante, può assumere un valore simbolico e di conseguenza monetario. Così fotografie senza qualità si prestano perfettamente a fungere da didascalia a un evento artistico strutturato che vede nel concetto che lo sorregge l’unica opera d’arte. Anzi, tanto più bassa è la cifra stilistica delle fotografie tanto meglio si possono piegare alle finalità del curatore.
Quando iniziai a fotografare sapevo pochissimo di fotografia. E come tutti i neofiti alla ricerca del proprio linguaggio, sperimentavo stili e generi diversi. Passavo dal paesaggistico all’astratto fino al pittorialistico. Ad accogliere le mie prime stampe furono le pareti non levigate e irregolari della mia casa paterna e l’iniziale entusiasmo di mia madre. Con un certo gusto da narratore, collocavo le serie più intime nella mia camera. Lì, seguendo le mie suggestioni, le screpolature delle pareti acconsentivano a mischiarsi alle fotografie e a comporsi in una sorta di alfabeto rivelatore.
Tutt’altra storia era in salotto. Vi troneggiava un dagherrotipo di un mio avo del quale mia madre mi aveva raccontato fin da piccolo la triste parabola. Lo sguardo austero del mio avo, con il suo ottocentesco disprezzo, non risparmiava le mie modeste stampe collocate alla parete, naturalmente a un’altezza più bassa del dagherrotipo.
Mia madre accettava paziente quell’invasione pur se a poco a poco – soprattutto quando lo stile cedeva a un immaginario indeterminato oltreché complicato – non se ne capacitava più, non le capiva. Tuttavia il suo cuore di mamma mi dava un credito infinito. E ho continuato a presidiare le pareti di casa con le immagini delle mie predilezioni e delle mie idiosincrasie.
Anche negli anni dell’università quando la mia cultura fotografica mi obbligava a riconoscerne la pochezza, quelle immagini continuarono a rappresentare un miraggio di lontananze, la possibilità di salvare la leggenda dell’infanzia dal disincanto del presente, il poter guardare l’estate dall’inverno, alla maniera di Proust: il mare, è sufficiente averlo visto una volta; non è necessario tornarci ogni anno; basta sapere che esiste per essere felici.
Così è stato fino al giorno in cui, rientrato dall’università nel fine settimana, mi sono accorto di strani cambiamenti: spostamenti, foto già archiviate nuovamente recuperate, rivisitazione delle sequenze. Mia madre, con serietà disarmante, sostenne che fosse la “donna pazza” di casa a intervenire sulla disposizione delle foto. Il riferimento era a una vecchia leggenda siciliana secondo cui le case antiche sono abitate spesso da spiriti di sesso femminile chiamate “donne” per evidenziare la loro appartenenza a una nobiltà non solo di classe ma anche d’animo.
Infatti le “donne” rappresentavano, nella loro irrealtà e follia, una forma di riscatto spirituale, la necessaria insubordinazione alla millenaria rassegnazione dell’universo femminile. E quando non si dilettavano in marachelle innocue, prendevano a mazzate individui di sesso maschile che, nella credenza popolare, meritavano sicuramente quel trattamento. Botte come forma di risarcimento per la mancata parità di genere, insomma. La “donna” di casa mia aveva deciso di diventare il mio curatore e di creare, seguendo il suo gusto, significati che io non avevo dato alle mie serie. Un po’ questa cosa mi divertiva perché pensavo a mia madre che andava su e giù per i piani cercando di aggiungere o sottrarre senso alle mie fotografie, e un po’ mi intrigava per desiderio di vicinanza.
Sapevo poco di mia madre. I miei ricordi cominciavano da quando lei aveva più di 50 anni. La vedovanza precoce le aveva portato un’ubbia solitaria nel cuore, l’aveva chiusa in una specie di malinconia refrattaria a ogni apertura all’altro. Seguire i suoi ragionamenti sulle mie fotografie, di pensiero in pensiero, era per me la maniera più efficace per conoscerla. Ma era anche una maniera per farmi conoscere da mia madre svelandole i significati che io e solo io potevo dare alle mie fotografie, lontano dalla gabbia estetica o ideologica dentro la quale le aveva fatte confluire stravolgendone il significato. In questo rapporto dialettico dal quale entrambi avevamo da imparare, tentai una volta di spiegarle che la fotografia è sì un’opera compiuta, tuttavia, quando fa parte di una serie, il suo significato si realizza e si esplicita proprio all’interno della serie. Certo si tratta sempre di “opere aperte” perché vanno al di là di ciò che denotano. Le fotografie suggeriscono, lasciano spazio al contributo di chi le guarda; permettono di ricondurre un evento esterno a sensazioni familiari, alla propria cultura, e costituiscono spesso l’incipit di una storia i cui singolari sviluppi avverranno nella mente dell’osservatore. Tuttavia, ciò non significa che si perdano in un’infinità di letture.
È il fotografo a evitare la dispersione del campo semantico e a definire il processo di significazione delle immagini, stabilendo il perimetro del connotativo. Così la cornice concettuale dentro la quale si sviluppa l’opera, la stabilisce l’autore perché è sostanza dell’opera stessa.
Affinché ci sia un’opera d’arte, sosteneva Heidegger, è necessario che ci sia un artista. Non un pennello, dei colori e una tela, ma un artista; non un abile disegnatore ma un artista. Così è per la fotografia essenziale, per dirla con Barthes: è necessario un fotografo, non un mero esecutore di fotografie.
Per tutte queste ragioni, ogni volta che sento invocare la necessità di un curatore ho una reazione risentita. Se la fotografia è opera compiuta, pur se aperta, qual è il ruolo del curatore?
Cura, da cui “curatore”, deriva dalla radice antica ku/kav che significa osservare, ma anche dal sanscrito kavi, saggio. Quindi etimologicamente, curatore è chi osserva saggiamente e non stravolge creativamente. In quest’ultimo caso, infatti, non si dovrebbe chiamare curatore bensì al limite “donna pazza”. Il ruolo del curatore è fondamentale quando la sua attività si traduce nella sistematizzazione dell’opera del fotografo, in un’assistenza che valorizzi l’opera senza tradirne mai lo spirito. Così facendo, egli è un trait d’union tra il pubblico e il fotografo, tra l’arte e la cultura.
Pare invece che la personalità del curatore abbia, negli ultimi anni, fagocitato quella del fotografo.
Molte sono le mostre che devono il loro successo al nome del curatore e non alla qualità delle fotografie. È il curatore a stabilire l’impianto concettuale dentro il quale si sviluppa l’evento espositivo e il fotografo non entra nel processo dinamico. Il suo lavoro è ridotto a semplice portatore di un’igienica mediocrità che non infici il discorso teorico ma ne sia perfettamente funzionale. In questo modo, il curatore serve la sua idea e non la fotografia. Ma l’idea, il pensiero, non possono essere il punto di arrivo. Se il curatore è un trait d’union, deve averne la modestia.
Sono sicuro che mia madre approverebbe.

Leave a Comment